A Day in the life

Una canzone, (quasi) ogni giorno.

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Martedì 24 Maggio 2005: Buzz, “Titolo in coreano” (2005)

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Il Sud Corea è un paese in cui il 75% della popolazione possiede un collegamento Internet a larga banda; in cui i posti di blocco della polizia sono vasi di fiori; in cui in ogni parcheggio, in ogni vagone del treno ci sono almeno due hostess a salutare chi parte, chi arriva, chi viaggia; in cui ci si saluta con un inchino; in cui alcune famiglie sono separate da oltre cinquant’anni da una guerra che le ha divise tra Nord (dove vige un regime autoritario e misterioso) e Sud.

A entrare in un negozio di musica a Seoul (esperienza personale di qualche giorno fa), ci si trova di fronte ai due pienissimi scaffali segnalati l’uno come K-POP (Korean Pop) e l’altro come J-POP (Japanese Pop). L’industria del K-POP è florida e i suoi metodi discutibili (vedi articolo del Time). Però la produzione è di ottimo livello come testimoniato da questo titolo, languido come una canzone dei Keane ma con tanto di assolo old style di chitarra elettica.

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Lunedì 23 Maggio 2005: Turin Brakes, “They can’t buy the sunshine” (2005)

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Nella categoria delle canzoni sing-along alla “Non è tempo per noi” in cui si canta la propria inadeguatezza rispetto a “quelli che ben pensano”, i Turin Brakes fanno la loro entrata con una bella melodia, chitarre e un ritornello che si canta dopo un ascolto.

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Giovedì 12 Maggio 2005: Damien Jurado, “Simple hello” (2005)

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Di cosa si ha bisogno per “andare d’accordo con il mondo”? Robert Fulghum suggerisce che tutto quello che serve lo abbiamo imparato all’asilo ed elenca:

·        condividi tutto

·        gioca correttamente

·        non colpire un’altra persona

·        riporta le cose dove le hai trovate

·        sistema dove hai messo in disordine

·        non prendere cose che non sono tue

·        dì che ti dispiace quando hai fatto male a qualcuno

·        lavati le mani prima di mangiare

·        tira lo sciacquone

·        vivi una vita bilanciata – impara un pò e pensa un pò e disegna e dipingi e canta e balla e gioca e lavora un pò tutti i giorni

·        fai un pisolino tutti i pomeriggi

·        quando sei fuori, stai attento alle macchine, stringi la mano delle persone che saluti e non restare da solo

·        stupisciti

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Giovedì 5 Maggio 2005: Damon & Naomi, “Beautiful close double” (2005)

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Dal sito di Damon & Naomi (http://www.damonandnaomi.com/):

“Il nome dell’etichetta di Damon e Naomi, 20/20/20, viene dal gioco da tavolo Carriere, a cui entrambi giocavano da bambini. I giocatori scelgono una professione (ai tempi andava di moda ecologia) e una combinazione di punti nelle tre categorie –successo, soldi, felicità- che sommati diano 60. Questi rappresentano gli obiettivi da raggiungere. Il primo che li raggiunge, vince.

Per come è fatto il gioco, vinceva quasi sempre chi sceglieva una uguale distribuzione dei punti sulle tre categorie. 20/20/20, appunto. Damon e Naomi hanno pensato di applicare questa ricetta al mondo della musica...

(Bonus per chi indovina quale categoria è stata ignorata fino ad adesso!)”

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Martedì 3 Maggio 2005: Sufjan Stevens, “Casimir Pulaski day”

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“Sono arrivato qui, dove si combatte per la libertà, per servirla e vivere o morire per lei”, scrisse Casimir Pulaski a George Washington in una lettera in cui offriva i suoi servigi militari durante la guerra di indipendenza (1775-1783). Casimir Pulaski, nato da una ricca famiglia polacca e morto in battaglia sul suolo americano, è rimasto alla storia come un simbolo di impegno alla causa della libertà e dell’indipendenza.

Oggi si festeggia il Casimir Pulaski day in molti stati americani il primo lunedì di Marzo. Tra questi l’Illinois, a cui Sufjan Stevens dedica il suo secondo album del ciclo dei 50 previsti, uno per ogni stato americano (!). La canzone è una meraviglia in tre accordi tra banjo, oboe e chitarra acustica.

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Lunedì 2 Maggio 2005: Tim Hardin, “Hang on to a dream”

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Tim Hardin ha pubblicato i suoi album più importanti alla fine degli anni ’60 (per la Verve), prima di scomparire lentamente dalle scene, morendo nell’oscurità all’età di 39 anni (1980). Ma la sue canzoni non hanno patito la stessa sorte. Scoperte e ricantate da altri (Marianne Faithfull, Astrud Gilberto, Rod Stewart, Johnny Cash), sono diventate classici della musica popolare. Una su tutte: “If I was a carpenter”, di cui esistono innumerevoli versioni.

Questo è un pezzo malinconico e bellissimo sull’impossibilità di rimanere aggrappati ai sogni quando questi sembrano fare di tutto per sfuggirci dalle mani.

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Venerdì 29 Arile 2005: Michael Penn, “Walter Reed” (2005)

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Che la musica ricordi un pò Aimee Mann (autrice della colonna sonora di Magnolia), non c’è da stupirsi. Michael Penn è più noto per essere il marito della cantante, oltre che il fratello di Sean Penn. Da ascoltare, se possibile, senza pregiudizi.

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Giovedì 28 Arile 2005: Yo la tengo, “Speeding motorcycle” (di Daniel Johnston)

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Nel parchetto davanti al mio ufficio, il Comune di Milano ha utilmente piazzato un decalogo delle regole da seguire. Tra queste si legge: “Circolare a velocità moderata con biciclette e pattini solamente nei viali”. Il che lascia qualche dubbio. E fuori dai viali? Non si può circolare? Si può circolare e per di più a velocità non moderata? Fortunatamente la traduzione inglese una riga sotto fuga ogni dubbio: “Reduce speed of bicycles and skaterollers only in avenues”. Appunto.

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Mercoledì 27 Arile 2005: The Magnetic Fields, “All my little words” (1999)

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Parte di un ciclo di 69 canzoni (in tre album) in cui Stephin Merritt racconta a suo modo l’amore , questo pezzo parla del (poco) potere che abbiamo sugli altri: possiamo farli andare via, non riusciamo a farli restare. “Non per tutto il té della Cina, non per tutto il Nord Carolina, non per tutte le mie piccolo parole, nemmeno se sapessi scrivere per te la più dolce canzone d’amore che hai mai sentito”.

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Venerdì 22 Arile 2005: The Cloud Room, “Hey now now” (2005)

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Questa mi ricorda la gag di Seinfeld in cui uno dei protagonisti si chiede cosa possano rispondere gli atleti che corrono i cento metri alla domanda: “Perché hai perso? Quando il tuo avversario ti ha rubato quella frazione di millesimo di secondo di cui ti ha preceduto?”. Now, n-now. La canzone è un incrocio irresistibile (se ascoltata all’ora giusta in giusta compagnia) di Strokes e New Order. Per completezza, il leader del quartetto newyorkese si fa chiamare J.

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Mercoledì 20 Arile 2005: Postal Service, “The district sleeps alone tonight” (2003)

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Fedeli al nome che si sono scelti, i due Postal Service, Jimmy Tamborello and Ben Gibba, compongono senza incontrarsi, inviandosi pezzi di brano via posta. Un buon argomento per i sostenitori del telelavoro.

(Il video è disponibile qui)

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Lunedì18 Arile 2005: I am kloot, “The stars look familiar” (2005)

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L’uomo osserva i suoi mobili sistemati accuratamente nel giardino. Di fianco al vialetto che porta al garage, ha disposto il letto con i suoi comodini e le lampade, più in là il tavolo da pranzo con le sedie. E poi il divano, la scrivania, il giradischi, la televisione.

Ua coppia di giovani passa con l’auto di fronte al giardino. Sarà una svendita di mobili, pensano. E si fermano. Provano il letto, accendono la TV, si siedono sul divano.

L’uomo torna a casa verso sera. Si comincia a vedere qualche stella. Quanto chiede per il letto? Propone la coppia. Trenta dollari. Venti? Affare fatto. Comprano il letto, la scrivania, la televisione. L’uomo versa da bere e si siede sul divano. Poi sceglie un disco, lo mette sul piatto. Avete voglia di ballare? Chiede.

Lui e lei ballano nel vialetto. Poi lei balla con l’uomo. Devi essere disperato, gli dice.

Lei racconterà questa storia per settimane, a chiunque le capiti a tiro. Aveva tutti i mobili nel giardino, abbiamo ballato, doveva essere disperato. Poi la racconterà sempre più raramente. Finché nessuno avrà più voglia di ascoltarla.

(da un racconto di Raymond Carver, tratto da “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”)

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Venerdì 8 Aprile 2005: The Apartments, “Could I hide here (a little while)

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Se il gioco sociale (del lavoro, delle relazioni) è truccato, se a vincere non è mail il migliore e le regole non scritte sono le uniche a valere, se la forza che muove tutto è la febbre dell’invidia, vale la pena di partecipare?

Ecco una domanda dalla quale non si scappa. D’Alatri lo sa e il suo nuovo film coinvolge lo spettatore nella ricerca di una risposta.

Che arriva da un Fabio Volo senza pizzo: no, non vale la pena di stare al gioco. Meglio rifugiarsi in campagna, lontano da tutto e da tutti, a riciclare materiale da discarica facendone opere d’arte. Ovviamente, Fabio Volo non si ritira da solo, ma con una cubista super-sexy.

E se qualcuno dovesse trovare la risposta un po’ improbabile? Il cinema, si dice, è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni.

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Giovedì 31 Marzo 2005: Radio dept., “Pulling our weight” (2003)

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Come scegliere tra A e B?

Tecnica metodica: fare la lista dei pro e contro nero su bianco, contarli, e il gioco è fatto. Peccato che poi rimanga la trentazione di pesare diversamente le varie voci: se “lavoro” vale 0.4 e “famiglia” 0.2 scelgo A, se invece sbilancio i coefficienti salta fuori la scelta B. La mia impressione è che, salvo casi lampanti, questo approccio possa portare ad una conclusione qualunque o, più probabilmente, alla follia.

Tecnica istintiva: scelgo A, speriamo in bene. Tanto non saprò mai cosa sarebbe successo se avessi scelto B.

Tecnica metodico-istintiva: passo ore a scrivere pro e contro seguendo la tecnica metodica e alla fine decido per A: A mi convince, è la scelta migliore, ci ho pensato bene. Poi, senza nessuna ragione, cambio idea e scelgo B.

Tecnica catenaccio: non prendo nessuna decisione. Aspetto che una delle due scelte non sia più possibile e a quel punto, per esclusione, scelgo per l’altra.

Tecnica mannheimer: chiedo a chiunque incontro per strada: A o B? Oscillo in una forchetta di qualche percento finchè il sondaggio non si stabilizza. E se non si stabilizza? Cambio strada?

Tecnica asino di buridano: non so cosa scegliere, mi piacciono sia A e che B. Scelgo A, poi B, poi A, poi B...

Tecnica alterna: scelgo C.

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Mercoledì 31 Marzo 2005: The frames, “Trying” (2005)

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“Sette mesi a nascondermi

Sepolto nella sabbia

Mi sono perso, vieni a cercarmi

...ma questa notte, non ci provi nemmeno

Mi ricordano costantemente

Che sono arrivato appena in tempo

Non scappare, come ho fatto io

 

...ma questa notte, non ci provi nemmeno

Questa notte non ci provi nemmeno”

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Martedì 22 Marzo 2005: Mirah, “Cold cold water”

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Sotto un titolo che più tradizionale non si può, Mirah (di Philadelphia, vero nome: Mirah Yom Tov Zeitlyn) costruisce una canzone in cui niente si ripete. L’atmosfera è quella di frontiera di un film western, ma è di una donna in viaggio che si parla. E così i cambi di umore dela voce di Mirah sono seguiti a distanza ravvicinata e spesso anticipati dall’accompagnamento:  si alternano country, musica orchestrale alla Morricone e chitarre rock. In modo imprevedibile.

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Venerdì 18 Marzo 2005: Willie Nelson, “Always on my mind”

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(Quanto segue è liberamente riadattato dal sito “Said the gramophone”)

La versione da studio di questa canzone è inascoltabile: una piano ballad, fredda ed elegante.

Questa versione live da un concerto con Johnny Cash è un’altra storia.

Willie canta le sue scuse per non essere stato l’amante che avrebbe dovuto, per aver mancato in una serie (piuttosto lunga) di cose. Chiede scusa perchè, nonostante tutto, “you were always on my mind”.

Si deve ammettere che come giustificazione non è granché, e si deve immaginare che qualunque donna degna dell’attenzione di Willie non possa che rendersene conto.

Ma, qui, in questa versione live, Willie non chiede scusa. Lascia andare gli accordi sulla chitarra quasi senza scopo, accetta i suoi errori. E quando canta “I’m so happy that you’re mine” vuole in realtà dire “sono molto infelice da quando non sei più mia”.

E alla fine, sugli applausi del pubblico, immaginate il sorriso di approvazione di Johnny Cash.

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Giovedì 17 Marzo 2005: Pelle Carlberg, “Go to hell, Miss Rydell” (2005)

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Una melodia accattivante e un testo leggero leggero con un pugno di ironia nordica: è quello che ci si aspetta dalla scuola svedese. E Pelle Carlberg, sulla scia di Jens Lekman, non disattende le aspettative. Qui il Nostro rintraccia su internet (“it was the easiest thing”) il numero di telefono di una giornalista che ha fatto una brutta recensione di un suo disco. Le chiama perchè vorrebbe dirle che... ma lei lo interrompe: mi mandi un’e-mail quando è sobrio. “And I wasn’t even drunk”, chiosa Pelle. Così non resta che chiamare a raccolta il più consenziente coretto maschile e intonare: “so go to hell, Miss Rydell”. Naturalmente in falsetto.

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Mercoledì 16 Marzo 2005: Gary Jules, “Mad world” (2003)

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In occasione dell’anniversario dell’11 Marzo 2004, mi trovavo a Madrid. Nella stazione di Atocha, luogo dell’attentato, ci sono due terminali che consentono a chi lo voglia di lasciare impressa una immagine digitale della propria mano accompagnata da un messaggio. Le mani fino ad oggi sono circa 60000 e si trovano sul sito http://www.mascercanos.com. Mentre lasciavo la mia testimonianza, nella testa andavano le note del pianoforte che aprono questo splendido rifacimento di un pezzo dei Tears for fears di vent’anni fa.


”I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles it’s a very very
Mad world
Mad world

Children waiting for the day they feel good
Happy birthday
Happy birthday
And I feel the way that every child should
Sit and listen
Sit and listen”

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Martedì 15 Marzo 2005: The decemberists, “Engine driver” (Kill rock stars, 2005)

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Ogni tanto succede che una canzone ti piace subito, dopo le prime cinque note. Succede, e non a caso, a una data persona, in un dato momento. Ora e adesso, la canzone dei The Decemberists sfonda qualche porta aperta della mia memoria, alludendo a qualcosa ma senza essere esattamente uguale a niente che ricordo. Non è forse questa la ragione d’essere della musica pop?

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Mercoledì 9-Giovedì 10 Marzo 2005: Hazy Malaze, “Looking out for you” (Fargo, 2005)

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Nel nuovo Alfie, Jude Law possiede un calendario che ogni giorno gli insegna una parola. Io non ho questa fortuna, però ho una enciclopedia. Questa mattina l’ho aperta a caso e ho puntato il dito a occhi chiusi.  E’ saltata fuori la parola:

Qadariti - nome dato agli adepti di una scuola teologica islamica sorta a Bassora nel VII secolo.

Piuttosto inquietante visti i tempi, no?

Per niente inquietante o casuale la scelta della canzone di oggi, un funk contagioso edito dalla solita infallibile etichetta francese Fargo.

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Martedì 8 Marzo 2005: Lou Reed, “Women” (BMG music, 1982)

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Quando vi sarete dimenticati/e delle tonnellate di mimose in vendita all’entrata della metropolitana, andatevi a riguardare “L’uomo che amava le donne” di Truffaut. Il protagonista, il signor Morane, scrive un libro sulla sua storia, sulle donne della sua vita: guardate, collezionate, amate tutte in modo diverso. Di una donna però il libro non parla. Il signor Morane se ne accorge solo dopo averlo completato e Truffaut lo racconta appena. E’ la donna che l’uomo ha cercato in ogni sguardo. E’ la donna che ha inseguito battendo sui tasti della macchina da scrivere.

Gli anni ’80 sono stati il periodo peggiore della carriera di Lou Reed, quello delle lungaggini e del disimpegno. Questo pezzo non fa eccezione. Ma oggi va bene così, “we all love women”.

I love women, I think they are great
They're a solace to the world in a terrible state
They're a blessing to the eyes, a balm to soul
What a nightmare to have no women in the world

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Lunedì 7 Marzo 2005: Marianne Faithful, “She” (Islands records, 1994)

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Dopo aver visto l’ultimo film di Ozpetek (Cuore sacro), mi ero ripromesso che non avrei frequentato musica con violini per un po’. Avevo anche considerato la possibilità di prendermi una pausa di riflessione con Roma (la mia città natale) per qualche giorno. Poi però ho pensato: perché prendersela con chi non c’entra nulla? E allora ecco tornare alla memoria She, scritta da Angelo Badalamenti (quello di Twin peaks): pieno di violini e di pretese come il film del regista turco. Ma qui l’ambizione è ripagata dalla voce vibrante di Marianne, mentre lì si parla di santità (niente meno) e il prete ha il viso di un attore televisivo.

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Venerdì 4 Marzo 2005: Over the Rhine, “Born” (2005)

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Quella voce, il pianoforte, la chitarra hanno il sapore di una conversazione notturna. Di quelle in cui vuoi tirare le somme, vuoi capirti, di quelle che solo una canzone può concludere. “I am going to learn to laugh through my tears”.

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Giovedì 3 Marzo 2005: Stars, “Your ex-lover is dead” (2005)

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“Where there’s nothing left to burn, you have to set yourself on fire”. Si spengono le luci. La voce, l’atmosfera: sembra stia per cominciare un classico hollywoodiano. Poi pero’ attacca quel violoncello solitario, quasi uscisse da Street Hassle di Lou Reed. E allora è chiaro che di classico lo sviluppo avrà solo le forme, all’occorrenza, ma non la sostanza.

Che è quella di un ri-incontro dopo un lontano one night stand: “I’m not sorry I met you...I’m not sorry there’s nothing to say.”

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Mercoledì 2 Marzo 2005: Nick Drake, “From the morning” (Island records, 1972)

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“Una volta è nato un giorno ed era bellissimo

 una volta è nato un giorno dalla terra

 

Poi la notte è scesa

la notte è scesa tutto intorno.

 

Guarda i giorni

i giorni colorati senza fine

e gioca come hai imparato

dal mattino.”

E’ l’ultima traccia dell’ultimo disco di Nick Drake. Era il 1972, Mr. Drake sarebbe morto due anni dopo (a 26 anni) per un’overdose di anti-depressivi.

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Martedì 1 Marzo 2005: Nick Lowe, “She’s got soul” (Yep Roc records, 2001)

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Se negli anni ’70 Nick Lowe insegnava ai punk la filosofia lo-fi ante-litteram dell’indie-rock e anticipava l’avvento dell’alt-country, oggi il Nostro è un classico crooner alla Nat King Cole che costruisce eleganti ballate. Non sempre guardare indietro è un male come dimostra questa “She’s got soul”.

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Venerdì 25 Febbraio 2005: Andrew Bird, “A nervous tic motion of the head to the left” (Fargo, 2005)

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Tic: rapido movimento involontario, improvviso e compiuto senza ragione. I tic possono variare per frequenza, ampiezza e sede. Più spesso interessano il viso: strizzamento delle palpebre, corrugamento della fronte, movimenti delle labbra, arricciamento del naso ecc. L'età più colpita è quella infantile e puberale. Caratteristico del tic è il fatto che il movimento è preceduto da un senso di necessità irresistibile, a cui segue un senso di soddisfacimento. I tic possono manifestarsi in persone con disturbi nevrotici o in individui con irritabilità e labilità emotiva. Il rimedio più opportuno è la psicoterapia, cui si possono associare ansiolitici.

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Giovedì 24 Febbraio 2005: American Music Club, “Myopic book” (BMI, 2004)

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Che la differenza tra europei e americani stia tutta in una tazzina di caffé? La tesi è sostenuta da un recente saggio pubblicato dal Corriere. Da una parte il caffé europeo (italiano, aggiungerei io): quasi un’opera di artigianato, piccolo e perfetto, con un rapporto quantità-prezzo scandaloso. Dall’altra il beverone americano: lungo e insapore, ma caldo e familiare come un negozio Starbucks. O come una libreria Barnes & Noble.

Mark Eitzel degli American Music Club dipinge la sua libreria dei sogni in questa lenta ballata. Racconta di essersi svegliato una mattina, faceva freddo. Era una di quelle mattine in cui persino un marciapiede troppo pulito ti ricorda che non sei nessuno. E allora speri di incontrare una libreria in cui suonano un disco dei Dinosaur Jr., in cui i commessi sono magrissimi e super-scortesi (“super-skinny and super-unfriendly”). E pensi: questo mi renderebbe felice.“’Cause maybe the worst is over”.

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Martedì 22- Mercoledì 23 Febbraio 2005: Baustelle, “Arriva lo yé-yé” (2001)

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Il Piper di Roma, inaugurato il 17 Febbraio 1965, ha da poco superato gli “anta”. Nei suoi primi anni di vita, è stato il tempio della musica e della cultura beat nello stivale. Qui si sono formati gli epigoni italici di Protocol Harum e Pink Floyd (gruppi che per altro hanno suonato nel locale): i vari Rokes, New Dada, New Trolls, Patty Pravo, Caterina Caselli,... Si discute e si è discusso se quell’ondata abbia anticipato il ’68 o sia stato un semplice movimento disimpegnato e anche un po’ borghese. Sia quel che sia, i Baustelle ci raccontano quegli anni a modo loro. E se i suoni vi sembrano troppo rétro (di quelli che fanno cambiare stazione radiofonica), sappiate che l’effetto è voluto.

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Venerdì 18 Febbraio 2005: David Kitt, “Song from Hope St. (Brooklyn, NY)” (Rough trade, 2001)

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“La noia è la sensazione che tutto sia una perdita di tempo; la serenità che niente lo sia.” (Thomas Ssasz)

“La cura per la noia è la curiosità. Ma non c’è cura per la curiosità”. (Ellen Parr)

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Mercoledì 16 – Giovedì 17 Febbraio 2005: Lou Barlow, “Home” (Merge records, 2005)

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Il nuovo disco (il primo da solista) di Lou Barlow si intitola Emoh, cioè Home al contrario. E se melodia, voce, parole sono carezzevoli e familiari, ci pensa l’arrangiamento electro-folk a creare un senso di distanza, di familiarità scritta al contrario. “I can never bring you home”.

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Martedì 15 Febbraio 2005: The frames, “Lay me down” (Anti-, 2001)

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Mi sono ricordato di questo pezzo dopo aver sentito una dichiarazione di Damien Rice. Diceva tout court che i The Frames, irlandesi come lui, sono la migliore live rock band del mondo. In “Lay me down” c’è quello che si trova nelle canzoni di Damien con in più (forse in meno) una produzione lussuosa, con banjo, chitarra, violini e una voce perfettamente levigata. Non ci sono le meravigliose imperfezioni dei sussurri e delle urla di Mr. Rice ma rimane l’arte di costruire melodie memorabili fatte di accelerazioni e di pause. In concerto, Glen Hansard (il cantante, anche nel cast di The Commitments) riesce a innestare “Ring of fire” di Johnny Cash sulla coda della canzone.

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Lunedì 14 Febbraio 2005: Paolo Benvegnù, “Il mare verticale” (Audioglobe, 2003)

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“Io lascio che le cose passino e mi sfiorino, perché non sono in grado di comprenderle”.

(da ascoltare fino in fondo)

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Venerdì 11 Febbraio 2005: Josh Rouse, “Winter in the Hamptons” (Rykodisc, 2005)

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Capita a volte di ascoltare una canzone, una voce e di pensare: ecco quello di cui avevo bisogno. A me è capitato con i dischi di Neil Finn (One Nil mi è ancora indispensabile) e oggi con quelli di Josh Rouse. Il precedente, intitolato 1972, era una rivisitazione fedele degli anni settanta con la sensibilità di un trentenne di oggi. L’ultimo recente lavoro si chiama Nashville, ma non è un compendio di musica country. Anzi, di country rimane qualche venatura: il resto è sono canzoni pop, d’autore, ricche di sfumature. Che ad ogni ascolto si rivelano, lentamente. (il video è disponibile qui).

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Mercoledì 9 Febbraio 2005: Acid house kings, “This heart is a stone” (Labrador, 2004)

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“Don’t stay with me, I’m trouble”.

“Hey, are you kiddin’ me? Trouble is my middle name”.

Succedeva nell’imprescindibile Manhattan del solito Woody Allen. Dalla Svezia, gli Acid house kings (che di acido non hanno proprio nulla) chiosano:

“They say your middle name is trouble but I know it’s Caroline”.

Il non-sense è condito da una melodia zuccherina, secondo tradizione della interessante etichetta svedese Labrador.

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Martedì 8 Febbraio 2005: The flaming lips, “Yoshimi battles the pink robots” (Warner Bros, 2002)

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Per dirla con Galimberti, viviamo nell’età della tecnica. Le nostre azioni sono sempre meno consapevoli dei loro effetti, all’interno di un meccanismo di cui manca una visione d’insieme. Diventiamo strumenti della tecnica, che procede autoalimentandosi, e non soggetti responsabili, che fanno uso di strumenti tecnici.

Le nuove possibilità offerte dalla tecnologia rendono inadeguati i principi della democrazia e dell’etica tradizionale: posso io decidere di un fatto (l’energia nucleare, ad esempio) di cui non ho alcuna competenza, se non sulla base di argomenti retorici? Posso anche solo valutare l’operato di un governo o di un politico in settori che non conosco? E ancora: possiamo noi definire in modo eticamente responsabile questioni come il momento in cui inizia la vita?

La mia impressione (speranza?) è che, in assenza di una fiducia forte in una etica della responsabilità (cioè, credo che chi decide sia competente e responsabile degli effetti della sua decisione), più forte della tecnica rimanga comunque l’istinto alla sopravvivenza. Abbiamo bombe atomiche in grado di distruggere il mondo 10.000 volte, continuiamo a studiarne di nuove ma nessuno fin ora ha premuto il pulsante.

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Lunedì 7 Febbraio 2005: Laura Nyro, “Walk on by/ Dancing in the street” (Columbia, 1971)

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Dice Rolling Stone che nel passaggio dai solari anni ’60 ai cinici anni ’70, mentre le studentesse sensibili consumavano le loro copie di Tapestry (Carole King), le donne romantiche e disilluse alleviavano le proprie pene con la musica di Laura Nyro. Newyorkese, raffinata songwriter, voce un pò sopra le righe, Laura Nyro è qui alle prese con due classici (Bacharach e Marvin Gaye). Era la sera del 30 Maggio 1971 e il leggendario Fillmore East di Manhattan che ospitava lei e il suo pianoforte avrebbe chiuso i battenti dopo nemmeno un mese.

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Giovedì 3 Febbraio 2005: Feist, “Mushaboom” (Polydor, 2004)

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Canadese, Feist è un incrocio originale tra il jazz addomesticato di Norah Jones, il nuovo folk di Jolie Holland, la canzone d’autore e la chanson francese. Questo numero è il più divertito e gradevole del suo repertorio (già il titolo promette bene), la storia di una donna di città che si ritrova per amore a vivere “On a little road barely on the map”, accompagnata da una chitarrina e dall’immancabile hand clapping.

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Mercoledì 2 Febbraio 2005: Crowded house, “Weather with you” (Capitol, 1991)

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Tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera, il 2 Febbraio è il giorno della marmotta. For as the sun shines on Candlemas Day [il 2 Febbraio], so far will the snow swirl in May...", diceva una antica tradizione cristiana. Importata in America, la leggenda si è trasformata per includere nella predizione il simpatico roditore: se questa mattina la marmotta, uscendo dalla tana, è in grado di vedere la sua ombra, l’inverno durerà ancora sei settimane, altrimenti la primavera è alla porte.

La marmotta più celebre, quella che da 118 anni non sbaglia una previsione (almeno secondo il club che le è stato costruito attorno), è Punxsutawney Phil. Per la previsione di quest’anno, siamo in attesa, per quelle degli anni passati si veda qui.

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Martedì 1 Febbraio 2005: Jens Lekman, “You are the light” (2005)

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Basta il primo verso:yeah I got busted / so I used my one phone call / to dedicate a song to you / on the radio”. Dedicata, dritta dalla prigione svedese, da Jens a lei, con tanto di orchestra.

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Lunedì 31 Gennaio 2005: Willard Grant Conspiracy, “Love doesn’t” (Glitterhouse, 2004)

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Per usare un eufemismo, non amo le rubriche di psicologia sui giornali della domenica. Quelle che pretendono di curare il caso di chi scrive e intanto rischiano di riprodurlo in chi legge. Quelle che ti dicono cos’è e cosa fa o non fa l’amore, perché così è scritto.

Love doesn’t dei Willard Grant Conspiracy vive su un pianoforte a metà tra Bad Seeds e Van Morrison. Pensare che compariva come b-side di un singolo mai pubblicato.

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Venerdì 28 Gennaio 2005: Pseudosix, “Run rebel” (2003)

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Le chitarre all’inizio sembrano campane che richiamano i fedeli all’attenzione.  Ma è una cerimonia di anime perdute e ritrovate, di ribelli che corrono senza speranza.

“Run rebel, your crooked course/.../everyone’s empty and you’re empty like the rest of us all”.

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Giovedì 27 Gennaio 2005: The Shins, “Saint Simon” (Subpop, 2003)

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Se i CD si potessero consumare, la mia copia del secondo disco dei The Shins sarebbe ormai inascoltabile. Trovate quasi per caso, in un periodo di umore non troppo brillante, quelle canzoni (sempre la nota giusta al momento che non ti aspetti) sono state la migliore compagnia (e stavo per scrivere terapia). Per avere una idea della loro musica basta dare un’occhiata al booklet: un paesaggio naturale ma pieno di elementi stravaganti e colorati.

Scegliere una canzone è difficile e dannoso. Se proprio devo, vada per “Saint Simon” per quello che succede dopo un minuto e mezzo: “Mercy's eyes are blue/ When she places them in front of you/ Nothing holds a roman candle to/ The solemn warmth you feel inside”.

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Mercoledì 26 Gennaio 2005: Firehouse, “When I look into your eyes” (Sony, 1996)

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Ecco la canzone che definisce il genere power ballad. Impossibile contare il numero di ascolti ai  bei tempi dei banchi di scuola (questa è una più recente versione acustica).

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Martedì 25 Gennaio 2005: John Hiatt, “Have a little faith in me” (Capitol records, 1998)

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Dice John Hiatt che se avesse un centesimo per ogni coppia che ha scelto questa come canzone nuziale sarebbe ricco. A confermare lo status di classic love song ci sono le innumerevoli cover, cantate perlopiù da voci femminili. E se questo non bastasse a renderci antipatico questo pezzo, aggiungerò che è stata usata come sigla per Dawson’s creek.

Eppure, sarà che John Hiatt mi sembra un songwriter molto sottovalutato, proprio non ce la faccio a non farmi piacere “Have a little faith in me”. Persino in questa versione più recente, arrangiata sontuosamente con band e coretti femminili.

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Lunedì 24 Gennaio 2005: Knife in the water, “2 spades” (Glitterhouse, 2004)

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Tre ragioni per cui mi piace questa canzone (scovata nella bella compilation della glitterhouse):

-         mi piace chi comincia a parlare dicendo “well”, come per proseguire un discorso già iniziato

-         mi piacciono le canzoni che cominciano senza fingere di essere qualcos’altro e finiscono rimescolando le carte

-         mi piacciono i ritornelli alla Hey Jude (“na-na-na”) cantati da voci femminili.

Well, that’s it.

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Venerdì 21 Gennaio 2005: Leonard Cohen, “In my secret life” (Columbia, 2001)

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“Ti ho vista questa mattina: sei passata in un lampo./ Se solo riuscissi ad allentare la presa sul passato./ Mi manchi da morire, all’orizzonte non c è nessuno./ E stiamo ancora facendo l’amore, nella mia vita segreta.”

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Giovedì 20 Gennaio 2005: Tori Amos, “I don’t like mondays” (di Bob Geldof) (Atlantic, 2001)

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Il Live Aid segnò per il rock l’inizio di un’epoca nuova, sancita da una nuova alleanza con il pubblico. Fortemente voluto da Bob Geldof, l’enorme evento musicale e mediatico puntò l’attenzione sul problema della fame in Africa e coinvolse grandi nomi della musica. 17 ore di concerto filate tra Londra e Philadelphia seguite da un miliardo e mezzo di persone. Dopo l’impegno politico degli anni ’60, il rock diventava così lo strumento per la sensibilizzazione delle coscienze ai grandi problemi dell’umanità.

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Mercoledì 19 Gennaio 2005: Joanna Newsom, “Sprout and the bean” (2005)

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La musica di Joanna Newsom sembra nascere sopra le nuvole, dove suona un’arpa solitaria. Il celeste dele prime note si riscalda sulla voce di Joanna, una Bjork che bambina lo è per davvero. Una bambina che non ha ancora deciso come crescere.

Chi ascolta spera rimanga così, in bilico tra follia e dolcezza.

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Giovedì 13 Gennaio 2005: Miracle mile, “As we speak” (MeMe records, 2004)

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Non è Elvis Costello, è semplicemente un’altra buona ragione per credere che il rock sia morto tempo fa e a sopravvivere sia la sola musica popolare.

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Mercoledì 12 Gennaio 2005: Nada, “Senza un perché” (2004)

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“Lei non parla mai, lei non dice mai niente...”. Nada nasconde gli spigoli dietro un arrangiamento pop tra banjo e organo hammond. E l’inquietudine rimane sulla superficie di una melodia che è capace di curare, di dire il male di vivere senza disperazione, come in una filastrocca: “E tutta la vita gira infinita/ senza un perché”.

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Martedì 11 Gennaio 2005: Beck, “Everybody’s got to learn sometime” (2004)

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Ci siamo incontrati, ci siamo piaciuti, abbiamo scoperto i nostri difetti, ci siamo lasciati (perchè era più facile?) e poi ce ne siamo dimenticati. E ci siamo incontrati di nuovo. Qualcuno ci ha informato: vi siete già incontrati, vi siete piaciuti, avete già scoperto che ci sono cose che non vi piacciono nell’altro, vi siete lasciati e ve ne siete dimenticati. Lo volete fare di nuovo? Ne vale la pena? Puo’ forse finire diversamente? Michel Gondry risponde da par suo in “The eternal sunshine of a spotless mind” (fatemi usare il titolo inglese, quello italiano è Se mi lasci ti cancello”), mentre Jim Carrey si muove tra ricordi e le note di questa canzone di Korgis, ricantata da Beck con il solito stile minimal-malinconico.

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Lunedì 10 Gennaio 2005: David Bowie, “Space oddity” (1969)

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Per la cronaca della prima missione sulla luna, la BBC uso’ questo pezzo di Bowie, uscito proprio quell’anno. A pensarci bene, una scelta non troppo felice: il Major Tom che decolla per lo spazio all’inizio della canzone (con tanto di countdown) alla fine perde contatto con la terra e si ritrova “sitting in a tin can/ Far above the world/ Planet earth is blue/ And there’s nothing I can do”. Non prima di essere diventato l’uomo del momento, tanto che l’intervistatore subito dopo il decollo pensa bene di chiedergli la squadra del cuore (“the papers want to know whose shirt you wear”). Tecnologia e solitudine (si dice che Bowie abbia scritto questo pezzo dopo aver visto 2001: Odissea nello Spazio).

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Mercoledì 5 Gennaio 2005: Daniele Silvestri, “Testardo” (Musicrama, 2002)

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Un divertissement in romanesco in attesa della befana. “Io so’ testardo, c’ho la capoccia dura...”, contro i buoni propositi per il nuovo anno.  Stornelli a parte, si ricomincia lunedì.

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Mercoledì 22 Dicembre 2004: Bill Withers, “Use me” (1972)

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Happy funky Christmas (come diceva James Brown) sulle note di Bill Withers, che non ringrazieremo mai abbastanza per “Ain’t no sunshine” e “Lovely day”.

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Martedì 21 Dicembre 2004: Blonde Redhead, “Angel” (4AD, 2003)

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C’è un film (“Il marito della parrucchiera” di P.  Leconte) in cui il protagonista, fin da bambino, vuole sposare una parrucchiera. Da grande ne sposa una ed è felice. Il film è tutto qui. Qui e nei balli improvvisati di Jean Rochefort, il protagonista, al ritmo di canzoni esotiche.

Nella categoria, ecco un pezzo recente dei Blonde Redhead, due fratelli italiani e una cantante giapponese in quel di Manhattan (sempre lì). Non avrà granché a che fare con Leconte ma è una buona scusa per l’ascolto. 

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Lunedì 20 Dicembre 2004: Big Star, “Thirteen” (Ardent, 1972)

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Questa storia d’amore tra adolescenti e rock’n’roll è uno degli America’s best kept secret. Mai uscito come singolo, semplice come l’età richiede, riesce a rendere credibile un verso come: Rock 'n Roll is here to stay/ Come inside where it's okay/ And I'll shake you.”

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Venerdì 17 Dicembre 2004: Devendra Banhart, “At the hop” (Young god records, 2004)

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Per qualcuno Devendra Banhart, ventenne al suo terzo disco, è un genio, altri non riescono a non addormentarsi innervositi al secondo pezzo. Di certo c’è che le sue canzoni sembrano uscite da un solaio dove hanno preso polvere per 70 anni. E come resistere a uno che canta “Cook me in your breakfast, put me in your plate/ ‘cause you know I taste great” per poi terminare la canzone sull’unica nota triste? 

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Giovedì 16 Dicembre 2004: Arcade Fire, “Wake up” (Merge records, 2004)

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Una canzone da sopravvissuti, quasi una Five Years di David Bowie rivisitata dai Polyphonic Spree in abito da cerimonia funebre. L’insistente accordo di chitarra elettrica copre le parole di Butler, un adulto che vorrebbe rivedere con occhi da bambino: "Children wake up / Hold your mistake up / Before they turn the summer into dust". E quando sembra che non si possa più tornare indietro, ecco la catarsi annunciata dal coro e celebrata dal quel pianoforte, così innocente.

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Mercoledì 15 Dicembre 2004: icoN, “Femme fatale” (Self, 2004; originale di Velvet Underground, 1967)

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Immaginate la liberazione dell’upper west side di Manhattan, New York City, dai liberal. I marines guidati da Donald Rumsfeld e Condi Rice che passano la linea della 59esima strada e fanno piazza pulita dei vari Tim Robbins, Woody Allen, Nora Ephron & Co. nel tentativo di esportare la democrazia anche in questo angolo del mondo. La fantasia è di un articolista de Il Foglio (leggi),  la realtà è che NYC è sempre stato un mondo a sé negli States. Prendete gli anni ’60. Mentre il movimento hippie era ancora vivo e predicava la psichedelia, a Manhattan si riscopriva il folk e l’impegno politico con la coppia Dylan-Baez e si inventava quello strano matrimonio tra musica e arte che sono stati i Velvet Underground nella Factory di Andy Warhol.

 

Il primo disco dei Velvet Underground esce nel 1967, ed è il mai troppo celebrato banana album. Ogni copia del disco era un’opera d’arte, secondo la concezione seriale di Warhol: la copertina conteneva  una banana che, sbucciata, rivelava il suo interno rosa. Tra le fondamentali canzoni dell’album, c’ è questa ballata, cantata nella versione originale da Nico e qui omaggiata da una coppia di musicisti italiani.

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Martedì 14 Dicembre 2004: Joe Strummer, "Redemption song" (Hellcat records, 2003; originale di Bob Marley, 1980)

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Ci sono alcune canzoni che tornano, ciclicamente e per una ragione ben precisa. Giusto un anno fa, nell’arco di pochi mesi, uscivano due versioni di questo classico di Bob Marley datato 1980, una di Joe Strummer e una della nostra Elisa. Non è un caso che di questi tempi entrambi abbiano sentito il bisogno di ricordarci questo potente antidoto alla schiavitù, sia mentale che fisica. Qualche mese prima di morire, Bob Marley disse che avrebbe voluto scrivere altre canzoni come questa. Poteva essere l’inizio di una nuova direzione nel suo lavoro e invece è rimasta l’ultima traccia del suo ultimo disco.

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Lunedì 13 Dicembre 2004: Damien Rice, "Blower's daughter" (2003)

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Ho rivisto Damien Rice qualche giorno fa in una puntata dello show di Jay Leno. Veniva dopo un'intervista un pò ingessata ad una coppia di attori che promuovevano un nuovo film. Lui, Damien, irlandese e poco incline alle formalità, aveva la stessa chitarra sfasciata che gli avevo sentito suonare mesi fa a Milano, lo stesso abbigliamento trascurato. E la stessa voce, intensa come nessuno, capace di sussurrare e urlare con la stessa sincerità, tra disperazione e speranza.

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Venerdì 3 Dicembre 2004: Gordon Haskell, "How wonderful you are" (2003)

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Come ogni notte, all'Harry's bar ad ascoltare jazz. Come ogni notte, so che non dovrò aspettare molto prima che suonino la mia canzone: "Do you know how wonderful you are". Allora mi alzerò e al banco ci sarai tu. Ti saluterò levando il cappello.

Si dice che quando per un attimo cala il silenzio tra due persone, di lì è appena passato un angelo. Il mio, di angelo, questa notte canta questa canzone.

Litigo spesso con l'arte della conversazione, ma qui ed ora bastano poche parole per dirti che questo è solo l'inizio: "Do you know how wonderful you are".

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Giovedì 2 Dicembre 2004: Don Mclean, "Vincent" (Columbia, 1970)

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“Starry, starry night” e siamo già dentro gli occhi di Vincent (Van Gogh). Il riferimento è all’opera più celebre dipinta durante il suo soggiorno presso il manicomio di Saint Remy de Provence, dopo l'episodio dell’orecchio tagliato. Quegli occhi vedono una notte d’estate bloccata in un vortice di movimenti circolari, “Look out on a summer's day/ With eyes that know the darkness in my soul”.

Don McLean parla al Van Gogh (Vincent) dell'ultimo periodo, quello di Auvers-sur-Oise, "now I understand/.../how you suffered for your sanity". Ne ricorda con tenerezza l’impegno verso i reietti (da giovane aveva servito come predicatore presso una comunità di minatori in Belgio), testimoniato dalle prime opere, “raged men in ragged clothes/…/how you tried to set them free". L'incomprensione delle sue buone intenzioni, “they would not listen, they did not know how./ Perhaps they'll listen now.” Che lo ha condotto fino al tragico epilogo:

On that starry, starry night,
You took your life, as lovers often do.
But I could have told you, Vincent,
This world was never meant for one
As beautiful as you.

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Mercoledì 1 Dicembre 2004: Ludovico Einaudi, "Le onde"  (Ricordi ,2004)

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“Se questo progetto fosse una storia, sarebbe ambientata sul lungomare di una spiaggia lunghissima. Un bagnasciuga senza inizio e senza fine. La vicenda di un uomo che cammina lungo questa riva e forse non incontra mai nessuno. Il suo sguardo si sofferma ogni tanto ad osservare qualche soggetto o frammento portato dall’acqua, le impronte di un gabbiano solitario, un granchio. Il paesaggio è sempre la sabbia, il cielo, qualche nuvola, il mare. Cambiano solo le onde, sempre uguali, sempre diverse, più piccole, più grandi, più corte, più lunghe” (Ludovico Einaudi)

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Martedì 30 Novembre 2004: Cody ChesnuTT, "My women, my guitars"  (One little indian records ,2003)

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Qui ci vorrebbe il bollino rosso. Cody ChesnuTT (finali maiuscole e talento che un Lenny Kravitz ha potuto solo sfiorare prima di cambiare parrucchiere) non usa mezze parole. D'altra parte, cosa aspettarsi da uno che canta: "Something is killing me...my breakdown is on the way", in attesa da esaurimento nervoso? Le sue donne, le sue chitarre: una vita senza risparmiarsi. Niente in questa canzone, nè altrove nel suo primo disco (36 canzoni!), è gratuito. E' tutto carne, sangue e ottima musica, lo-fi come si conviene ad una registrazione casalinga.

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Lunedì 29 Novembre 2004: Micah P. Hinson, "As you can see"  (Sketchbook ,2004)

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Micah P. Hinson è un texano che a 19 anni aveva già perso tutto: casa, famiglia, denaro e amore. Era l'epilogo dell'ingresso nella sua vita di una modella di Vogue con problemi di droga. Oggi, a 22 anni, ha la voce di uno che ha vissuto troppo.

Questa è la quinta traccia del suo primo disco, la più breve e la più semplice. Due accordi di pianoforte lasciano spazio a un sommesso riff di chitarra che promette di tornare. Poi ecco la voce di cui dicevamo, canta la speranza dopo una caduta ("as you can see, I will fall/..../I will find a way/to get us in safely") e l'inutilità di una promessa ("I can't promise a thing").

Un minuto e dal buio arriva il suono di un flauto. Tocca te adesso cadere e sperare. Ma questa volta la promessa si mantiene: torna quel riff di chitarra, più intimo, quasi sussurrato.

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Venerdì 26 Novembre 2004: Kings of convenience, "Winning a battle, losing the war"  (Source ,2001)

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Il sole si leva sul campo da battaglia. Io e te, come eravamo.

Il giorno arriva. E finalmente tutto è nuovo.

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Giovedì 25 Novembre 2004: Willie Nelson, "On the road again"  (Columbia, 1980)

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"On the road again/ The life I love is makin' music with my friends".

Potrebbe essere il manifesto di Willie Nelson, se mai un outlaw come lui avesse bisogno di scriverne uno. Naturalmente è solo una canzonetta, di quelle scritte e suonate di getto. In un giorno come un altro, in tour, come sempre da quarant'anni a questa parte.

"We're the best of friends/ Insisting that the world be turnin' our way". E' gente così che non perde la speranza.

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Mercoledì 24 Novembre 2004: David Gray, "Please forgive me"  (Iht records, 1998)

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Quattro accordi di pianoforte su una base disco per dire l'impossibilità della parola. Per arrivare al punto in cui non resta che arrendersi, "Please forgive me/ if I act a little strange/ .../ Feels like lightning/ running through my veins/ every time I look at you.". Perché tutto quello che non riusciremo mai a dire è già stato detto. Eppure rimane un mistero in cui perdersi: "Like a stone I fall into your eyes/ deep into that mystery". Come i suoi occhi, così semplici, così profondi.

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Martedì 23 Novembre 2004: James Taylor, "Up on the roof"  (Columbia, 1979)

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Scritta quarant'anni fa, quando i last minute e le riviste di psicologia ancora non esistevano, questa è la ricetta del team Goffin e King (Carole) contro il logorio della vita moderna. Up on the roof, sul tetto, a ritrovare la tranquillità, lontano da tutto e tutti.

Per Rolling Stone è tra le 150 canzoni più belle di ogni tempo (nella versione originale dei The Drifters, 1962). Per me è un esempio perfetto di come il pop più ingenuo sia sempre la migliore medicina.

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Lunedì 22 Novembre 2004: Duke Elligton, "Solitude"  (Verve, 1996)

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Kansas City, gli anni della Grande Depressione, un locale fumoso. E poi il boss di turno, che del locale è il proprietario, e un povero sventurato. E' sempre per amore che tipi come questo si mettono nei guai.

Qui siamo al punto della storia in cui le sorti dell'eroe dipendono da una parola del boss, da una sfumatura del suo umore. Proprio nel momento in cui nella sala grande la big band  (i migliori musicisti della città suonano sempre in locali fumosi) intona "Solitude" di Duke Ellington. Il boss sorride all'eroe: "Sei fortunato". Gli dice. "La senti questa musica? Questa è una delle ragioni per cui vale la pena vivere".

Dalla sala grande arriva il suono del piano e dei fiati. Sono mille voci che si inseguono, si sovrappongono e poi si perdono, alla ricerca di un momento di pace.

[La fine della storia è in "Kansas City" di R. Altman]

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Venerdì 19 Novembre 2004: Billy Joel, "New York state of mind"  (Sony, 1998)

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Chiedete a chi ci ha vissuto, esiste per davvero. Il mio personale “New York state of mind” era fatto di tutto questo: la corsa notturna in taxi lungo l’Hudson river, i sei dollari spesi per mezz'ora al caldo da Starbucks, le passeggiate nel Village, la domenica a Central Park, gli outside drinks portati al ristorante, Lou Reed, i dolci di Chinatown consumati sotto il sole di Washington square, Rite Aid, quel tizio nudo con la chitarra davanti all’hotel Marriott in Times Square, Woody, il detto "anything goes", i concerti estivi, i film all’aperto a Bryant park, il parcheggio sulla 80esima strada quando hai appuntamento sulla 42esima, i fuochi d’artificio del 4 luglio visti da Weehawken, bagels & pancackes in the morning, il Lincoln tunnel, David Letterman, gli idranti, il fumo che esce da chissà dove, quell'odore che dopo il primo giorno sembra normale, il Path train. E, naturalmente, questa canzone.

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Giovedì 18 Novembre 2004: Van Morrison, "Philosopher's stone"  (Exile, 1999)

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Prima di Harry Potter, prima di Jung, la pietra filosofale era già la meta di un cammino lungo una vita. Una meta fatta per essere desiderata, quasi toccata ma mai raggiunta. Fatta per rimanere un miraggio, come la possibilità di trasformare ogni metallo in oro o l'elisir e di lunga vita. Van Morrison, lungo le strade dei giorni nostri, è alla ricerca, da solo, "out on the highways and the by-ways all alone". Questo e' il suo lavoro, "Even my best friends they don't know/ that my job it's turning lead into gold". E' la sua pietra filosofale, "and I'm searching for the philosopher's stone".

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Mercoledì 17 Novembre 2004: Keb' Mo', "I'm so lonesome that I could cry" (di Hank Williams) (UMG Recordings, 2001)

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Un anno fa in questi gioni mi trovavo a San Francisco. Al porto, a qualche passo dall'uomo siepe (the original bushman, come diceva il cartello, uno che si nasconde dientro una siepe finta per spaventare i passanti), di fronte alla fermata del cable car, stava un ometto barbuto di mezza età, cappellaccio e chitarra. Intratteneva i turisti, in attesa, sotto la pioggia. "Ecco un pezzo per chi si sente giù, perchè domani sarà migliore", o qualcosa del genere. Ed ha attaccato con questo classico di Hank Williams (qui nella recente versione di Keb' Mo').

Mr. Williams invece al domani non ha mai pensato. E' stato praticamente l'inventore del mito del "live fast, die young", lasciando orfane una manciata di grandi canzoni alla tenera età di 29 anni. Ritornava da un concerto, era il 1953, e si trovava nel retro di una limousine.

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Martedì 16 Novembre 2004: Nick Cave and the Bad Seeds, "Where the wild roses grow"  (Mute records limited, 1996)

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La più celebre delle murder ballads di Nick Cave è una storia a due voci. Ed è la storia del destino di un nome che si compie. Attraverso un incontro, quello tra Elisa Day, per  tutti in paese la Rosa Selvaggia (Wild Rose), e un giovane. La tragedia è scritta in quelle rose rosse in riva al fiume, così belle, così simili alle labbra di lei. "All beauty must die", prima che il sipario si abbassi.

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Lunedì 15 Novembre 2004: Warren Zevon, "Amor de mi vida"  (Rykodisc, 2003)

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Con quel sorriso un pò così, Warren Zevon avrà pensato che prima o poi una canzone in spagnolo doveva scriverla anche lui. Perchè, si sa, ormai si usa. Avrà buttato giù un testo semplice, metà inglese metà spagnolo, la storia di una amore perduto che si vorrebbe ritrovare: "Tu eres el amor de mi vida/ si solo te pudiera encontrar/ con todo el corazon the diria/ tu eres mi amor de verdad". Poi si sarà messo al pianoforte. E lì avrà smesso per un attimo quel sorriso per cercare con le dita una delle sue ultime melodie: a breve, lo sapeva bene, avrebbe bussato alle porte del paradiso.

Così, eccola, la canzone spagnola di Warren Zevon. Uno scherzo pieno di vita e dolcissimo.

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Venerdì 12 Novembre 2004: The Smiths, "There is a light that never goes out"  (Wea, 1986)

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A  metà tra una gag dei Monty Python e un film di Ken Loach, believe it or not, la voce di Morrissey è qui quella di una adolescente disperata. La si immagina in una provincia inglese, nel pieno degli anni '80, al telefono con il suo amore. "Take me out tonight/ because I want to see people/ and I want to see lights". E se per un pò viene voglia di cedere al sentimentalismo, poi arriva il ritornello. "And if a ten ton truck/ kills the both of us/ to die by your side/ well, the pleasure and the privilege is mine". I beg your pardon, sir Morrissey, the pleasure is ours.

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Giovedì 11 Novembre 2004: Jolie Holland, "Amen"  (Anti, 2004)

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Questa notte c'è un cerchio attorno alla luna. Il viaggio di Jolie Holland parte da lì.

Al tramonto un sentiero si è fatto strada nella montagna per consentirle il passaggio. "I'm gonna fly down that road/ till I get where I'm going". Tutto in questo volo di notte è nuovo e antico. "I'm gonna fly all night down to see you".

Fino alla fine della strada, intorno alla luna, fino a un bacio. "I'm gonna fly till I am there/ I'll put a kiss behind your ear".

[Jolie Holland suona a Milano il 15 Novembre]

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Mercoledì 10 Novembre 2004: Morphine, "You look like rain"  (Rykodisc, 1993)

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Piove ancora, ma senza far rumore. Il gocciolare lento che suggeriscono gli occhi è sostituito da questo suono profondo. Sembra un richiamo, parte dalla testa per arrivare al cuore, andata e ritorno. "Your mind and your experience call to me/ You have lived and your intelligence is sexy".

Quando finalmente lo raggiungi, il suono cessa, lasciando il silenzio e la pioggia. Ma è un istante. Ora l'inganno dei sensi è scoperto e non rimane che lei. "I can tell you taste like the sky/ 'cause you look like rain".

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Martedì 9 Novembre 2004: Ritchie Havens, "Freedom"  (1969)

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Se l’Haight Ashbury di San Francisco dove aveva avuto inizio il movimento hippie era ormai preda di spacciatori e disperati (l’LSD era stato messo al bando nel 1966), se la morte di Martin Luther King e Robert Kennedy decretava per molti il fallimento del movimento pacifista, Woodstock rappresentò la voce di chi ancora pensava che nonostante tutto ci fosse ancora speranza. La “madre di tutti i raduni” durò tre giorni, da venerdì 15 a lunedì 18 agosto 1969. Ad aprire il festival venerdì pomeriggio fu Ritchie Havens. La leggenda narra che dopo aver suonato per due ore e quaranta minuti, Havens avesse esaurito il suo repertorio. Richiesto a gran voce sul palco per l’ennesimo bis, pensò che c’era ancora qualcosa di cui non si era parlato: di libertà, la libertà che avevano conquistato e stavano vivendo. Prese la chitarra e sugli accordi di “Motherless child” improvvisò una melodia. Era nata “Freedom”, tra i simboli di quel momento irripetibile.

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Lunedì 8 Novembre 2004: Joni Mitchell, "The circle game"  (Reprise records, 1970)

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Il tempo come una filastrocca. Come richiamo per i sogni, che cambiano con le stagioni, si perdono, si ritrovano. Ma le parole rimangono quelle.

“And the seasons/ they go round and round”.

Da bambino, le canti velocemente. “And the painted ponies go up and down”. Poi cresci e provi a rallentare la strofa. “We’re captive on the carousel of time”.

E’ un girotondo, siamo dove eravamo, forse migliori, forse diversi, a reinventare sogni dimenticati e a inseguire sogni nuovi.

“And go round and round and round/ in the circle game”.

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Venerdì 5 Novembre 2004: Ben Folds five, "Philosophy"  (Passenger, 1995)

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Qui c'è una finestra aperta e qualcuno che vuole ancora, nonostante tutto, dire la sua.

Da cantare in stato confusionale e ad alto volume.

"Go ahead you can laugh all you want but I got my philosophy".

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Giovedì 4 Novembre 2004: Patrick Bruel e Laurent Voulzy, "Que reste-t-il des nos amours" (di Charles Trenet) (BMG, 2002)

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Forse l’amore vero è quel segreto sussurrato in un tronco, e poi ricoperto per rimanere lì per sempre, di cui parla Wong Kar Wai in “2046” (al cinema). Forse è vero che l’amore vissuto inevitabilmente si perde, sfuma nei ricordi, fino a rimanere solo nel vento di cui parla Charles Trenet (“Ce soir le vent qui frappe à ma porte/ me parle des amours mortes/ devant le feu qui s’éteint”).

 Ma forse c’è dell’altro. Il protagonista di “2046” vive nel ricordo di una storia impossibile. E l’incapacità di sfuggire a questo passato lo conduce in giornate uguali a se stesse, fatte di incontri e addii. La sua vicenda suggerisce che l’amore vissuto è una cosa rara, che deve arrivare al momento e al posto giusto, deve essere riconosciuto. E accettato.

Altrimenti lo si perde per sempre perché, impariamo alla fine, indietro non si torna: "Que reste-t-il de nos amours? Que reste-t-il de ces beaux jours? Une photo, vieille photo de ma jeunesse". E rimane solo il segreto, per sempre custodito nel tronco dell’albero.

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Mercoledì 3 Novembre 2004: Elvis Costello, "Shipbuilding" (Riviera global record productions, 1983)

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1982. Dicono che presto riapriranno il cantiere. Per ora è solo una voce, sussurrata per paura, “It’s just a rumour that was spread around town”. Dovremmo essere contenti, in fondo costruire navi è tutto quello che sappiamo fare, in questo buco di paese sperduto sulle coste inglesi. E di questi tempi non c’è nessuno che non abbia bisogno di soldi. Grazie signora Thatcher, ci sta rendendo la vita impossibile.

Ma che prezzo dobbiamo pagare? La nave che costruiremo si porterà via i nostri ragazzi per questa guerra contro l’Argentina. "The boy said: .../ I will be back by Christmas". Sapessi almeno dove sono le isole Falkland.

With all the will in the world/ Diving for dear life/ When we could be diving for pearls”.

(Nota: L’assolo di tromba è di Chet Baker. Pare che sia stata la sua ultima registrazione).

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Martedì 2 Novembre 2004: John Lee Hooker, "I love you honey" (ARC Music Corp, 1958)

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Oggi è “il primo martedì dopo il primo lunedì di Novembre” e così, come accade ogni quattro anni dal 1792, gli americani decidono il loro nuovo presidente. Un paio di secoli fa, il martedì era un buona scelta poiché consentiva ai contadini, religiosi e isolati, specialmente negli stati del Sud, di onorare la domenica e di avere il tempo di raggiungere i seggi nelle città viaggiando il lunedì sui carri o a cavallo. Ad accompagnare questi spostamenti era il blues, nato dall’incontro tra cultura bianca e afroamericana nel Delta del Mississippi.

Nato a Clarkesdale, Mississippi, John Lee Hooker appartiene alla moltitudine di emigranti neri, tra i quali molti reduci di guerra, che si spostarono a Nord negli anni Quaranta e Cinquanta alla ricerca di un lavoro in fabbrica. Con loro, il blues del Delta si trasformò e si adattò ai ritmi delle grandi città, specialmente a Chicago (si veda il bel documentario di Marc Levin "Godfahers and sons") e a Detroit. Ed è nella “motor city” che il "boogie infinito", come era chiamato Hooker, incarnò per cinquant’anni la leggenda, la storia e la natura del blues. 

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Venerdì 28 Ottobre 2004: Bic Runga, "When I see you smile" (Sony, 2002)

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Quando arriverà la sera, lasceremo che passi sotto la porta. Senza dirlo a nessuno. E domani mattina io avrò il tuo sorriso e noi avremo questa canzone. When I see you smile/ It feels like I'm falling/ It's not for anybody else to know/ The way your face could light the bitter dark of every street”.

La morning song in questione viene da lontano. Precisamente dal nord della Nuova Zelanda, dove vivono ancora i maori (oggi sono 315.000 pari al 15% della popolazione e solo dal 1930 godono sostanzialmente degli stessi diritti dei bianchi). A regalarcela è Bic Runga, metà maori metà cinese, la sua chitarra e Neil Finn (che cura la produzione, vedi anche Lunedì 24 Ott.).

“When I see you smile/ First thing in the morning/…/ Could it be that you and I have the greatest love to ever be /How could this have ever been before?/ It's not for anybody else to know”. 

Sarà una buona giornata.

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Giovedì 27 Ottobre 2004: Jacques Brel, "Une valse à mille temps" (Ed. Intersong-Paris, 1959)

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In una scena di Big Fish (Tim Burton) il protagonista vede per la prima volta la donna della sua vita. E’ pieno giorno, in un circo. La voce narrante spiega che in quel momento, quando si incontra l'amore, il tempo si arresta. Solo per l'innamorato però, perché tutto il resto, intorno, continua a muoversi. E quando l'eroe si riprende dall’estasi è già sera e tutti hanno lasciato il tendone.

Qui, su parole e musica di Jacques Brel, succede il contrario. Il suono dolce di un carillon apre le danze. Un sorriso, uno sguardo, Parigi. Il sentimento nasce a tempo di valzer. "Et Paris qui bat la mesure/ Paris qui mesure notre émoi". E il tempo del valzer accelera, mentre ci innamoriamo, finché solo io e te riusciamo a seguirlo. "Une valse à trois temps/ Qui s'offre encore le temps/ De s'offrir des détours/ Du côté de l'amour". Finchè, a danzare, non siamo più soli: "Au troisième temps de la valse/ Nous valsons enfin tous les trois/ Au troisième temps de la valse/ Il y a toi y'a l'amour et y'a moi".

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Mercoledì 26 Ottobre 2004: Girls in Hawaii, "Bees and butterflies" (Naive, 2004)

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Ci sono canzoni che raccontano una storia, altre che descrivono un’emozione, questa si esaurisce in un’immagine. Piove, le note cadono ora veloci ora più lente e la strofa è una scusa per arrivare a guardare le mani. “Bees and butterflies down in my hands/ now I have to teach them/ how to fly”. Poi smette di piovere e rimane il suono dei tuoni in lontananza.

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Martedì 25 Ottobre 2004: The Doors, "Alabama song" (Elektra/Asylum, 1967)

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Nel 1929 ebbe luogo a Lipsia la prima dell’opera in tre atti Ascesa e caduta della città di Mahagonny, una durissima metafora della Berlino dell’epoca tra imbroglioni, sfruttatori e prostitute. Era il primo capitolo della collaborazione tra Bertolt Brecht e Kurt Weill (poi costretti a fuggire all’estero dopo l’incendio del Reichstag nel 1933). L’opera fece scandalo e diventò un simbolo dell’arte sovversiva, intesa non più come puro esercizio estetico ma come veicolo di contenuti etici e sociali. Tra le canzoni contenute, Alabama song. “Well, show me the way/ To the next whiskey bar/…/ For if we don't find/ The next whiskey bar/ I tell you we must die”. Materialismo, disperazione, piaceri illeciti. E non è un caso l’omaggio dei Doors nel loro primo album (1967), con la voce di Jim Morrison e la tastiera di Ray Manzarek a rievocare le strade di Berlino degli anni trenta. “Show me the way/ To the next little girl/…/ For if we don't find/ The next little girl/ I tell you we must die”.
 

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Lunedì 24 Ottobre 2004: Neil Finn, "Sinner" (Sony, 1998)

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A volte la coscienza ha la voce di un vecchio 33 giri che comincia così, violino e pianoforte. E improvvisamente, gli occhi intorno a te sono i tuoi occhi, le facce la tua faccia, mentre il tempo sembra essere sul punto di fermarsi. “See it anyone got my eyes got my face”. La voce cambia, assume la forma di tutte le melodie che la tua memoria riesce a ricordare, finchè arriva il momento più dolce: “Sinner I have never learned/ beginner I can not return/ forever I must walk this earth/ like some forgotten soldier”. Finchè ti allontani da quegli occhi e da quelle facce e ti riconosci. “Today I am still disconnected to the face that I saw in the clouds”. E per un attimo, tutto è vero. “The closest I get to contentment is when all of the barriers come down”.

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Venerdì 22 Ottobre 2004: Tom Waits, "Please call me, baby" (Asylum, 1974)

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Prendete Nighthawks di Hopper, aggiungete la pioggia e guardate alle spalle del diner, dietro una delle finestre semichiuse. Qui la scena si anima, c’è un piano jazz che suona chissà dove e una sigaretta che fuma.

Al tramonto, lei è uscita sbattendo la porta, l’ennesimo litigio. Lui è rimasto a guardare fuori e le parla come se potesse sentirlo. “If this is love we’re crazy as we fight like cats and dogs/ But I just know there’s got to be more”. Allora chiamami, ovunque tu sia, ti prenderai un raffreddore a camminare sotto la pioggia. Si fanno cose folli quando si è feriti. “If I exorcise my devils/ Well my angels may leave too/ When they leave they're so hard to find”.

Il piano risponde qualcosa. Prego che tu non ritorni mai più, prego che tu sia qui adesso, “Life's so different than it is in your dreams”.

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Giovedì 21 Ottobre 2004: Johnny Cash, "I've been everywhere" (American recordings, 1996)

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Una strada polverosa da qualche parte negli Stati Uniti, Johnny cammina con il suo carico sulle spalle. Un camion si avvicina, offrendo un passaggio. Johnny, naturalmente, si accomoda. “Hai mai visto una strada così, piena di polvere e sabbia?” gli chiede l’uomo. Non lo ha riconosciuto. Johnny sorride: “Sono stato ovunque, man”. E tanto per essere chiaro, elenca.

 

 “Reno Chicago Fargo Minnesota Buffalo Toronto Winslow Sarasota Whichta Tulsa Ottona Oklahoma Tampa Panama Mattua LaPaloma Bangor Baltimore Salvador Amarilli Tocapillo Pocotello Amperdllo Boston Charleston Dayton Lousiana Washington Houston Kingston Texas (County) Monterey Fairaday Santa Fe Tollaperson Glen Rock Black Rock Little Rock Oskaloussa Tennessee Tinnesay Chickapee Spirit Lake Grand Lake Devil's Lake Crater Lake Louisville Nashville Knoxville Omerback Shereville Jacksonville Waterville Costa Rock Richfield Springfield Bakersfield Shreveport Hakensack Cadallic Fond du Lac Davenport Idaho Jellico Argentina Diamondtina Pasadena Catalina Pittsburgh Parkersburg Gravelburg Colorado Ellisburg Rexburg Vicksburg Eldorado Larimore Adimore Habastock Chadanocka Shasta Nebraska Alaska Opalacka Baraboo Waterloo Kalamazoo Kansas City Souix City Cedar City Dodge City”.

 

“I’ve been everywhere”. E se a dirlo è Johnny Cash, potete crederci.

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Mercoledì 20 Ottobre 2004: Iron & Wine, "Naked as we came" (Sub pop, 2004)

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Il sole di Miami, amore e morte. E a tessere le fila, un arpeggio di chitarra e due voci, dolcissime. "One of us will die inside these arms/
Eyes wide open, naked as we came
/ One will spread our ashes round the yard". E' il lavoro di una vita la semplicità.

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Martedì 19 Ottobre 2004: Kingsmen, "Louie Louie" (1963)

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Nell’Agosto 1983 la radio KFJC radio di Los Altos Hills, California decide di dedicare una maratona alla “madre di tutte le canzoni rock”: 63 ore, quelle necessarie per suonare tutte le versioni note di “Louie Louie” (più di 1200!). Per farsi un’idea del fenomeno (antologie, monografie, documentari) basta visitare il sito http://www.louielouie.net/. La leggenda comincia nel 1963 con i Kingsmen, un quintetto di Portland, Oregon che rifa un pezzo di Richard Berry. Nell’anno di “Blowing in the wind” e “Surfin’ in the USA” il disco è dappertutto, vedi Animal House, ambientato proprio nel 1963. Il successo è tale che la canzone diventa persino oggetto di un’indagine FBI per contenuti scabrosi, poi archiviata per l'impossibilità di decifrare con esattezza il testo. Il titolo di un libro di Dave Marsh sull’argomento chiarisce ogni dubbio: "Louie Louie. The History and Mythology of the World's Most Famous Rock 'n Roll Song; Including the Full Details of Its Torture and Persecution at the Hands of the Kingsmen, J. Edgar Hoover's FBI, and a Cast of Millions; and Introducing for the First Time Anywhere, the Actual Dirty Lyrics”.

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Lunedì 18 Ottobre 2004: Okkervil river, "The war crimal rises and speaks" (Jagjaguar, 2003)

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“The heart wants to feel”, vuole sentire, vuole convincersi che quel tragitto è davvero tornare a casa. La mente e le mani sono inquiete. Stai guidando verso casa, “you’ re almost back now”, lo capisci dai cartelloni, la banca, poi le ultime notizie. La testa vuole impedire agli occhi di guardare ma gli occhi vogliono sapere. Hanno trovato un ufficiale, ha ucciso trenta anni fa donne e bambini di un paese. Ora è lui che parla, urla dalla pagina del giornale: ”How did I climb out of a life so boring into that moment?”. Urla nella tua testa, dietro i tuoi occhi: “If I could climb back through time, I’d restore their lives and then give back my own”. E urla con la tua voce. Poi l’eco delle ultime notizie si perde mentre ti allontani.

Ora sei a casa, davanti a tua moglie, tutto è tornato normale, dietro i tuoi occhi non si alzerà più nessuna voce.

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Venerdì 15 Ottobre 2004: Patti Smith, "Frederick" (Arista, 1979)

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“L’esordio nella vita di una giovane coppia, le difficoltà ad adattarsi l’uno all’altro, con all’inizio l’euforia dell’accoppiamento, poi i primi scontri, la rivolta, la fuga, la riconciliazione e finalmente l’accettazione”. E’, per dirla con Truffaut, il tema del bellissimo film di Vigo, “L’Atalante” (1934). Avete presente la sigla di “Fuori orario” su Rai tre, l’uomo che si tuffa nel fiume a occhi aperti e vede nell’acqua la donna che ama in una memorabile quanto ingenua sovrimpressione? E’ una delle scene chiave del film. Ghezzi ha scelto come colonna sonora “Because the night” cantata da Patti Smith, io mi permetto di suggerire, dalla stessa voce, “Frederick". Era il 1979, e la “poetessa del rock” innamorata lo era davvero. "Frederick you`re the one/ as we journey from sun to sun/ all the dreams I waited so long for/ fly tonight so long so long."

[Patti Smith suona a Milano lunedì 18 all’Alcatraz]

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Giovedì 14 Ottobre 2004: Solomon Burke, "None of us are free" (Fat possum, 2002)

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A scrivere “freedom” su Google dopo tre-quattro siti commerciali, compare il primo emendamento della costituzione americana. Poteva andare peggio. Vale la pena di ricordarlo:

“Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances.”

Ecco un buon punto di partenza per riprendere la discussione di questi giorni sul rapporto tra libertà personali (di culto, di parola) e legge. Limito qui il contraddittorio a (in rigoroso ordine di età) Thomas Jefferson (1743-1826) e Soren Kierkegaard (1813-1855).

T. Jefferson: "Il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza".

S. Kierkegaard: "La gente chiede libertà di parola come compensazione per la libertà di pensiero che non usa mai".

Per continuare, sottofondo consigliato è il canto del reverendo Solomon Burke, ex-colonna della Motown (vedi 11 Ottobre), che avvicina al gospel un pezzo dei Lynyrd Skynyrd. "None of us are free (if one of us is chained)".

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Mercoledì 13 Ottobre 2004: Josh Ritter, "California" (Signature Records, 2003)

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Questa è una lettera. Una cosa d’altri tempi, come la musica di Josh Ritter. Lei è rimasta a casa, lui è partito per la California a cercare un lavoro e se stesso. Come tanti, ma questo è il suo viaggio: “don’t say the trip has been done a hundred thousand times/ 'cause this one
is mine”. Deve aver lasciato casa tra le lacrime, ora le scrive: “no, don’t cry/ I’ll be back and I’ll bring the sun to shine/ in your eyes/ on your shoulders”. Ma non è ancora il momento di tornare: “I’ll be back when I’m good and ready/ California doesn’t seem to think I’m ready yet”.

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Martedì 12 Ottobre 2004: The Polyphonic Spree, "Hold me now" (Hollywood records, 2004)

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Sulla marcia iniziale, la stanzetta si riempie di persone, gomito a gomito come in quel vecchio film dei fratelli Marx. Sono i The Polyphonic Spree (letteralmente “caciara polifonica”), sono 23 e tutti vestiti di una tunica bianca (vedere per credere, www.thepolyphonicspree.com). La stanzetta è senza soffitto e i 23 guardano verso il cielo. Gospel o pop sinfonico, di qualunque cosa si tratti, hanno voglia di farsi sentire, ognuno a modo suo, in una vertiginosa rincorsa verso l’alto. E il senso è tutto nel refrain: "Hold me now don't start shaking. You keep me safe...you're the only one when times are tough.". All'ennesimo coro viene voglia di abbracciare il primo che passa per la strada.

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Lunedì 11 Ottobre 2004: Marvin Gaye, "What's going on" (Motown, 1971)

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Parallela al sogno di Martin Luther King correva a Detroit negli anni ’60 l’esperienza della Motown, prima etichetta discografica afroamericana made in USA. “Costruita sull’amore” come amava ripetere il fondatore Berry Gordy Jr, la Motown si proponeva l’integrazione della musica nera, rhythm’n’blues e soul, spogliata di connotati politici o sociali, con il pop bianco. Il sogno si infranse contro le rivolte afroamericane che infiammarono i ghetti delle principali città degli Stati Uniti durante la “lunga estate calda” del 1967 e l’anno successivo contro l’assassinio di Martin Luther King. Da tutto questo (e dalla guerra in Vietnam) nasce il capolavoro di Marvin Gaye. Impossibile ora non prendere posizione, non interrogarsi . “What’s going on?” Siamo tutti madri, fratelli, padri, sorelle, “war is not the answer for only love can conquer hate”.

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Venerdì 8 Ottobre 2004: Josh Rouse, "Love vibration" (Rykodisc, 2003)

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Difficile non riconoscere il giro di basso, i fiati, siamo già stati da queste parti. Sono ancora gli anni ’70, rivisti e (poco) corretti dall’appena trentenne Josh Rouse. I versi non smentiscono e l’invito è di quelli da accettare: “Step out into the sun/ Step out into the world and love someone”. Pescate dal vostro immaginario le facce di qualche raduno sotto il sole, magari in California: “And you people all know what I'm talkin' about”. Facce che sanno di cosa si parla, “spread the love vibration”. E le buone vibrazioni del basso, instancabili, ci portano fino alla fine della giornata. Fino all'assolo di un sax, che qualcuno, chissà come, ha portato fin qui.

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Giovedì 7 Ottobre 2004: Johnny Mandel and Mike Altman, "Suicide is painless" (Sony, 1970)

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E’ il 1970 e Nixon ha da poco annunciato l’inizio del disimpegno americano in Vietnam spinto da un imponente movimento pacifista. Nei cinema esce M*A*S*H di Robert Altman, ovvero come sopravvivere alla guerra (nel film è quella di Corea ma i riferimenti sono ovvi) con umanità, consapevolezza del dolore e, non da ultimo, ironia. Il film comincia sui versi di questa canzone ed è un inizio perfetto: “Through early morning fog I see/ visions of the things to be”.  Sembra un canto senza speranza, anche se il triangolo di sottofondo lascia intendere che ci sia di più. “Suicide is painless/It brings on many changes”. E al secondo ritornello è impossibile avere dubbi, arriva la seconda voce, attaccano addirittura i violini: e’ uno scherzo, è il sorriso di chi vuole mettere le cose nella giusta prospettiva: “A brave man once requested me to answer questions that are key is it to be or not to be and I replied 'oh why ask me?”.

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Mercoledì 6 Ottobre 2004: Badly Drawn Boy, "Four leaf clover" (Astralwerks Emd, 2004)

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Voci e rumori indistinti, comincia così, siamo solo in attesa della nostra fermata. Poi poco lontano ci accorgiamo di lui. Le sta parlando, la guarda negli occhi. “Go on do what you got to do, You've got your dreams I've got mine too.”, la rassicura: “Be strong get, off at the next stop. Don't worry about a thing.”. Chi sono? E’ un addio? Poi lui cambia tono, vuole farla sorridere, ecco il pianoforte: “Come on. I'll let you borrow my four leaf clover. (trad.: four leaf clover - quadrifoglio) Come on. Take it with you, you can pass it on.” E forse lei ora sta sorridendo, ma non riusciamo a vederla.

Poi lui rimane da solo. Rimangono i suoi occhi fino alla fine del viaggio, pianoforte e chitarra finalmente insieme. Sembra felice. Non le ha forse detto prima di salutarsi “You know I won't be happy till you've won”?

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Martedì 5 Ottobre 2004: The Stills, "Retour to Vega" (Vice Records, 2004)

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L'arpeggio di chitarra acustica, i violini, poi pero' entra la batteria. Allora devi essere a una festa, magari a Montreal, città dei The Stills. Ci sei e non puoi fare a meno di muovere la testa sul beat dell'elettrica di sottofondo. Ma nello stesso tempo ti senti un po' estraneo: "je suis toute à la fois l'acteur et le décor" e sempre di passaggio: "je ne vais nulle part mais a toute vitesse". A complicare le cose c'è sempre, nonostante tutto, qualcuno cui pensare: "les filles a moitié nues/ je pense à toi souvent". Pausa. Si ritorna dove avevi cominciato , poi la chitarra di sottofondo diventa protagonista  e copre violini e pensieri. Alla fine sei ancora lì ed è quasi ora di tornare a casa.